Botteghe Fiorentine
Tutti i tipi di documenti prodotti dalle corporazioni sono atti notarili in quanto dovevano avere validità ufficiale, questi dettano delle regole che l’artefice medievale era tenuto a seguire, non si tratta comunque di costrizioni che gli impedivano di esprimere a pieno le proprie capacità e volontà ma norme che gli permettevano di avere un ruolo attivo all’interno della società urbana. Esiste ad esempio tutta una serie di regole di carattere iconografico ma all’interno di questi canoni stabiliti l’artefice può esprimersi in maniera personale.
Alcune di queste norme legislative notarili stabilivano una differenziazione di ruoli all’interno delle compagnie (associazioni di botteghe che si suddividevano secondo percentuali prestabilite i guadagni ed eventuali danni) e che il responsabile giuridico di queste fosse unico. A volte una compagnia poteva raggiungere anche decine di persone. Egli è quasi sempre estraneo all’abilità di mestiere e generalmente non ha nessuna incidenza sul manufatto ma mette a disposizione della compagnia un fondo economico e la sua capacità in campo pratico e organizzativo.
Ciò può comportare che basandosi sui documenti si possa fraintendere e giungere alla conclusione sbagliata in quanto chi prendeva accordi con la committenza spesso non coincideva con l’artefice esecutivo. E’ questo il caso del Polittico Stefaneschi firmato da Giotto ma in realtà eseguito non da lui ma dalla sua bottega; o della Croce Argentea del Battistero fiorentino che l’analisi stilistica attribuisce in modo certo a Antonio del Pollaiolo, confutando i documenti esistenti.
Fra gli atti che interessano la storia dell’arte ci sono:
- Contratti di apprendistato. Stabiliscono in quale modo un giovane entra in bottega presso un maestro. Per alcuni luoghi questo aspetto fu studiato a fondo, come per Genova, mentre a Firenze ha avuto minore attenzione ma si può dedurre che le modalità di apprendistato sono piuttosto variabili.
Non se ne conosce la durata esatta ma sicuramente gli anni variavano a seconda del tipo del mestiere e della volontà individuale; in linea di massima si pensa possa variare da un minimo di 3 anni fino ad un massimo di 12 (in ogni caso a 24 anni un artefice era considerato fuori dal mondo educativo). Gli apprendistati più lunghi concedevano maggiori diritti al giovane, Brunelleschi, ad esempio, ottenne di pagare una tassa minore per iscriversi alla corporazione. In genere il maestro non pagava il lavoro dell’aiutante ma gli garantiva vitto e alloggio, poteva invece essere la famiglia di quest’ultimo a pagare l’artefice, spesso in natura (con vino, olio ecc..).
Nella bottega non si imparava soltanto il mestiere ma anche a leggere, scrivere e fare i conti, tanto che a volte diventa un vero e proprio cenacolo, come quella di Vespasiano da Bisticci, un 'cartolaio' (addetto alla realizzazione del libro in tutte le sue fasi) che operava in Via del Proconsolo. Egli iniziò presso un legatore per poi diventare il massimo fornitore di libri miniati delle maggiori personalità del tempo(Federico da Montefeltro, Aragonesi, e molti altri). La sua bottega divenne una fucina culturale, per la quale passarono i più grandi umanisti.
- Contratti di committenza. Era obbligatorio registrare ogni rapporto venutosi a creare tra un artefice ed un committente, sia per i grandi sia per i piccoli lavori, per la tutela di entrambe le parti. Questi contratti riguardano soprattutto la validità e la qualità dei materiali impiegati per la realizzazione del manufatto, motivo principale delle controversie, come attestato dagli atti e sentenze. Quando nascevano questo tipo di dispute veniva chiamato a giudicare la qualità reale del manufatto un rigattiere.
Le problematiche fra l’artefice e il committente potevano anche essere di natura iconografica e per rispondere in maniera adeguata ai desideri di quest’ultimo molte botteghe possedevano una biblioteca con testi illustrati dal quale attingevano il loro repertorio di immagini. I contratti di committenza non erano molto dettagliati da questo punto di vista, al massimo veniva indicato il numero di personaggi che doveva comparire, così come mancano indicazioni di carattere tecnico. Ovviamente più il committente era facoltoso e più le sue richieste prevalevano sulla libertà dell’artefice.
- Affitto della bottega. Frequentemente gli artefici prendevano in affitto la bottega, che era valutata in base a due elementi: il sito (contenitore architettonico, con un affitto maggiore nel caso fosse un edificio ad angolo) e l’“entratura” (cioè la fama che un luogo si era conquistato nel corso del tempo).
Le forme delle botteghe erano sempre le stesse: generalmente a T o a L rovesciata, in modo che le porte aggettanti, costituenti gli ingressi, fossero una sorta di attuali vetrine, dette “mostre”, per esporre gli oggetti o lavorare davanti alla clientela.
Le porte che chiudevano le botteghe erano lignee e si alzavano all’apertura e riabbassavano alla chiusura tramite una serie di marchingegni molto complessi. Ogni artefice doveva tenere al meglio non solo la propria bottega (e provvedere quindi alla sua imbiancatura, sostituzione di tegole ecc..) ma anche la zona circostante (pulizia, illuminazione, lastricatura delle strade e del marciapiede ecc..).
- Affitto degli arnesi. Molto spesso gli artefici non potevano permettersi il possesso degli strumenti del mestiere e per questo li affittavano, ciò riguarda soprattutto gli arnesi molto costosi come telai e torni, ma esistono anche documenti relativi all’affitto di oggetti più semplici come vaselli per comporre i colori da parte di pittori.
- Contratti con i sottoposti. In bottega, oltre al maestro, operava anche il fattore, ovvero l’uomo di fiducia, i salariati o lavoranti (non lavoratori che erano i contadini) specializzati in alcune operazioni (preparare pigmenti, lavorare alcune parti del manufatto ecc..) e retribuiti per i loro servizi. La categoria più bassa era quella dei garzoni che svolgeva i compiti più umili.
I sottoposti sono spesso oggetto di dispute per le giornate di “scioperio” in cui si rifiutavano di lavorare, per l’abitudine al gioco d’azzardo, ma soprattutto per il tradimento del maestro quando favorivano la concorrenza svelando segreti e accordi del maestro.
Alcune di queste norme legislative notarili stabilivano una differenziazione di ruoli all’interno delle compagnie (associazioni di botteghe che si suddividevano secondo percentuali prestabilite i guadagni ed eventuali danni) e che il responsabile giuridico di queste fosse unico. A volte una compagnia poteva raggiungere anche decine di persone. Egli è quasi sempre estraneo all’abilità di mestiere e generalmente non ha nessuna incidenza sul manufatto ma mette a disposizione della compagnia un fondo economico e la sua capacità in campo pratico e organizzativo.
Ciò può comportare che basandosi sui documenti si possa fraintendere e giungere alla conclusione sbagliata in quanto chi prendeva accordi con la committenza spesso non coincideva con l’artefice esecutivo. E’ questo il caso del Polittico Stefaneschi firmato da Giotto ma in realtà eseguito non da lui ma dalla sua bottega; o della Croce Argentea del Battistero fiorentino che l’analisi stilistica attribuisce in modo certo a Antonio del Pollaiolo, confutando i documenti esistenti.
Fra gli atti che interessano la storia dell’arte ci sono:
- Contratti di apprendistato. Stabiliscono in quale modo un giovane entra in bottega presso un maestro. Per alcuni luoghi questo aspetto fu studiato a fondo, come per Genova, mentre a Firenze ha avuto minore attenzione ma si può dedurre che le modalità di apprendistato sono piuttosto variabili.
Non se ne conosce la durata esatta ma sicuramente gli anni variavano a seconda del tipo del mestiere e della volontà individuale; in linea di massima si pensa possa variare da un minimo di 3 anni fino ad un massimo di 12 (in ogni caso a 24 anni un artefice era considerato fuori dal mondo educativo). Gli apprendistati più lunghi concedevano maggiori diritti al giovane, Brunelleschi, ad esempio, ottenne di pagare una tassa minore per iscriversi alla corporazione. In genere il maestro non pagava il lavoro dell’aiutante ma gli garantiva vitto e alloggio, poteva invece essere la famiglia di quest’ultimo a pagare l’artefice, spesso in natura (con vino, olio ecc..).
Nella bottega non si imparava soltanto il mestiere ma anche a leggere, scrivere e fare i conti, tanto che a volte diventa un vero e proprio cenacolo, come quella di Vespasiano da Bisticci, un 'cartolaio' (addetto alla realizzazione del libro in tutte le sue fasi) che operava in Via del Proconsolo. Egli iniziò presso un legatore per poi diventare il massimo fornitore di libri miniati delle maggiori personalità del tempo(Federico da Montefeltro, Aragonesi, e molti altri). La sua bottega divenne una fucina culturale, per la quale passarono i più grandi umanisti.
- Contratti di committenza. Era obbligatorio registrare ogni rapporto venutosi a creare tra un artefice ed un committente, sia per i grandi sia per i piccoli lavori, per la tutela di entrambe le parti. Questi contratti riguardano soprattutto la validità e la qualità dei materiali impiegati per la realizzazione del manufatto, motivo principale delle controversie, come attestato dagli atti e sentenze. Quando nascevano questo tipo di dispute veniva chiamato a giudicare la qualità reale del manufatto un rigattiere.
Le problematiche fra l’artefice e il committente potevano anche essere di natura iconografica e per rispondere in maniera adeguata ai desideri di quest’ultimo molte botteghe possedevano una biblioteca con testi illustrati dal quale attingevano il loro repertorio di immagini. I contratti di committenza non erano molto dettagliati da questo punto di vista, al massimo veniva indicato il numero di personaggi che doveva comparire, così come mancano indicazioni di carattere tecnico. Ovviamente più il committente era facoltoso e più le sue richieste prevalevano sulla libertà dell’artefice.
- Affitto della bottega. Frequentemente gli artefici prendevano in affitto la bottega, che era valutata in base a due elementi: il sito (contenitore architettonico, con un affitto maggiore nel caso fosse un edificio ad angolo) e l’“entratura” (cioè la fama che un luogo si era conquistato nel corso del tempo).
Le forme delle botteghe erano sempre le stesse: generalmente a T o a L rovesciata, in modo che le porte aggettanti, costituenti gli ingressi, fossero una sorta di attuali vetrine, dette “mostre”, per esporre gli oggetti o lavorare davanti alla clientela.
Le porte che chiudevano le botteghe erano lignee e si alzavano all’apertura e riabbassavano alla chiusura tramite una serie di marchingegni molto complessi. Ogni artefice doveva tenere al meglio non solo la propria bottega (e provvedere quindi alla sua imbiancatura, sostituzione di tegole ecc..) ma anche la zona circostante (pulizia, illuminazione, lastricatura delle strade e del marciapiede ecc..).
- Affitto degli arnesi. Molto spesso gli artefici non potevano permettersi il possesso degli strumenti del mestiere e per questo li affittavano, ciò riguarda soprattutto gli arnesi molto costosi come telai e torni, ma esistono anche documenti relativi all’affitto di oggetti più semplici come vaselli per comporre i colori da parte di pittori.
- Contratti con i sottoposti. In bottega, oltre al maestro, operava anche il fattore, ovvero l’uomo di fiducia, i salariati o lavoranti (non lavoratori che erano i contadini) specializzati in alcune operazioni (preparare pigmenti, lavorare alcune parti del manufatto ecc..) e retribuiti per i loro servizi. La categoria più bassa era quella dei garzoni che svolgeva i compiti più umili.
I sottoposti sono spesso oggetto di dispute per le giornate di “scioperio” in cui si rifiutavano di lavorare, per l’abitudine al gioco d’azzardo, ma soprattutto per il tradimento del maestro quando favorivano la concorrenza svelando segreti e accordi del maestro.
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